Intorno ai vent’anni, grazie anche alla diffusione e all’espansione del web, ho ampliato di molto la mia conoscenza musicale, riuscendo a scoprire artisti internazionali che con molta probabilità, senza il supporto fondamentale della rete, avrei fatto fatica a conoscere.
Ricordo che nei primi anni di università, affamato com’ero di musica bella e di qualità, tendevo a cercare con ostinazione artisti dediti a sviluppare il genere a cui forse resto più legato in assoluto, vale a dire il folk, dove prevalgono sempre chitarre acustiche e altri strumenti poco roboanti, ideali per sostenere al meglio limpide melodie.
Non so chi fu a consigliarmi di approfondire la conoscenza di un certo The Tallest Man on Earth, pseudonimo del cantautore svedese Kristian Matsson. Forse qualche compagno di studi, oppure un collega specializzato nel settore musicale: fatto sta che potendo contare su una buona connessione, quando ero a casa riservavo parecchio tempo all’ascolto dei suoi primi lavori.
Al tempo questo ragazzo nato Leksand nel 1983 era davvero a inizio carriera, forse un poco acerbo, ma le sue canzoni riuscivano tuttavia ad attirare la mia attenzione, portandomi spesso a sentire e risentire il disco d’esordio “Shallow Grave” e il successivo “The Wild Hunt”, il primo album di The Tallest Man on Earth che avrei poi acquistato alcuni anni dopo.
Da lì in avanti ho osservato con interesse e curiosità il suo percorso, contraddistinto dalla pubblicazione di lavori di qualità, piuttosto scarni e minimali nei suoni eppure vivaci e solari grazie a ritmi accesi e a un cantato energico, vigoroso.
Ho apprezzato molto il volutamente oscuro “Dark Bird Is Home” e l’ispiratissimo “I Love You. It’s a Fever Dream.”, dischi usciti rispettivamente nel 2015 e nel 2019.
A proposito di questo funambolico artista, che purtroppo passa raramente nel nostro Paese per suonare dal vivo, qualcuno potrebbe rimproverargli il fatto di non avere la tendenza a evolvere e a sperimentare, continuando a scrivere in un modo abbastanza riconoscibile che sembra strizzare l’occhio al Bob Dylan più ruvido e acustico. Riguardo questo aspetto mi sento di dire che il buon Matsson si conferma ancora oggi un’ottima penna, uno che sa dare il meglio di sé quando è il momento di comporre, che non fa dischi tanto per farli.
Oltre a questo, ascoltando le sue ultime pubblicazioni ho notato comunque una certa ricerca, segno evidente di maturità e di voglia di non ripetersi. Detto ciò, è chiaro che quando si fa musica folk è abbastanza difficile scostarsi da certi binari. Dubito che in futuro assisteremo a una sua virata verso l’elettronica o, che so, il progressive o la world music.
The Tallest Man on Earth è l’immediatezza. Lui, con la sua chitarra suonata a volte con delicatezza e altre con impeto, ha l’urgenza di dire determinate cose con un linguaggio del tutto naturale, spontaneo, il riflesso della sua anima. È il suo modo di concepire la musica, che piaccia oppure no.
Per quanto mi riguarda, continuo a godermi lo spettacolo che lui continua a regalarci.
Alessandro
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