
Ho visto molti dei film firmati dal regista americano Gus Van Sant, secondo me uno degli autori più validi tra quelli della sua generazione. Ricordo di essere rimasto molto colpito da “Elephant”, arrivato nelle sale nel 2003 e proprio quell’anno capace di ottenere la Palma d’Oro a Cannes nella categoria “Miglior film”.
Facendo un giro in rete per rinfrescarmi la memoria, ho letto che questo film rappresentò il secondo capitolo della cosiddetta “trilogia della morte”, aperta da “Gerry” del 2002 e conclusa da “Last Days” del 2005 (in quest’ultima pellicola, dove recita Michael Pitt, si ripercorrono gli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain). Effettivamente, ora che ci penso, mi torna un certo legame tra le tre opere, tutte splendide e caratterizzate da una profonda drammaticità.
“Elephant” è un film molto forte, scritto con maestria e ispirazione e poi girato e montato con altrettanta bravura. Un lungometraggio cupo, opprimente e inquietante fin dalle battute iniziali, contraddistinto da molti silenzi e da una serie di scene, apparentemente lente e innocue, che tuttavia mandano avanti la narrazione fino al terribile finale.
Attraverso quest’opera, realizzata più di vent’anni fa, Van Sant riuscì a stimolare delle importanti riflessioni sulle contraddizioni della società americana, nonché sui disagi tipici dei ragazzi non in grado di trovare il loro posto nel mondo. Tutti aspetti, purtroppo, ancora attuali negli Stati Uniti e altrove.
Se avessi tempo lo rivedrei di nuovo, soprattutto per concentrarmi sulla recitazione dei bravissimi attori reclutati per raccontare una storia cruda e struggente, amara e sconvolgente. Grazie a una maturità e a un talento invidiabili, all’epoca Van Sant riuscì a costruire un film assai valido e per nulla banale, tanto meno scontato.
Alessandro
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