Gli U2 e il loro “Pop” ipnotico e spiazzante

Uscito nel marzo del 1997, quindi oltre ventisette anni fa, “Pop” è forse l’album degli U2 che, più di altri, ha puntualmente diviso i fan della celebre band. Per molti, incluso il sottoscritto, rappresenta un qualcosa di geniale e travolgente, anche se sono davvero tante le persone che continuano a ritenerlo il disco che ha dato il via al loro graduale declino.
Onestamente non ho mai compreso questa visione, questo atteggiamento così critico verso un lavoro piuttosto articolato, da considerare come il tentativo del quartetto irlandese di esplorare nuovi mondi sonori. Mi rendo conto che, all’epoca della sua pubblicazione, persone folgorate da dischi come “War”, “The Unforgettable Fire” e “The Joshua Tree” non poterono di certo apprezzare canzoni contraddistinte da uno stile così elettronico, tuttavia mi sembra un po’ esagerato ritenerlo un qualcosa di mediocre, di posticcio.
“Pop” è un disco figlio dei suoi tempi, scritto e prodotto nella seconda metà degli anni Novanta, periodo di grande fermento a livello musicale e segnato da un forte desiderio di modernità, forse in vista dell’arrivo del nuovo millennio. È necessario contestualizzarlo: ai tempi c’era una chiara tendenza a utilizzare basi elettroniche e sonorità elaborate attraverso un uso massiccio di tastiere, e questo avveniva specialmente nel mainstream.
Gli U2, che sono sempre stati dediti a fare una musica apprezzabile da un pubblico trasversale, decisero al tempo di rimettersi in discussione, rivedendo il modo di scrivere, di comporre e di arrangiare. In seguito a quella loro necessità, assolutamente comprensibile, prese vita questo disco contenente dodici pezzi e anticipato da
Discothèque, a mio avviso un’autentica bomba, una traccia che ad ogni ascolto mi stordisce come la prima volta (impossibile tenere le gambe ferme quando inizia a crescere il ritmo della canzone).
Continuo a ritenere questo album un esperimento curioso e ben riuscito, un qualcosa di diretto eppure elaborato al tempo stesso: una follia pacata, uno svago controllato. L’elettronica concepita e messa a punto da Bono e soci non è, almeno per il sottoscritto, pacchiana e patinata; si avverte un certo gusto nella costruzioni ritmica e sonora dei pezzi in scaletta, nel senso che è evidente che siamo di fronte a un disco ragionato e non istintivo, tantomeno prodotto in maniera approssimativa.
Ogni volta che ascolto “Pop” mi immergo nelle atmosfere della fine degli anni Novanta, di certo pompate, aggressive, ma contraddistinte da grande energia, da ventate di freschezza. E mi rivedo bambino, catturato dall’incredibile quantità di influenze percepibili accendendo la radio o la televisione in casa oppure facendo caso ai pezzi diffusi dal jukebox dello stabilimento al mare.
Mi piace proprio tanto questo disco, anche se non ha niente a che vedere con i dischi che hanno permesso agli U2 di diventare uno dei complessi rock più amati del pianeta. È un album che deve essere contestualizzato, quindi apprezzato per il tentativo dei suoi artefici di reinventarsi e di andare in un’altra direzione.
Fa un po’ strano contemplare brani quali
Mofo, Gone e Miami, perché degli U2 degli anni precedenti non c’è praticamente nulla. In ogni caso, ritengo davvero lodevole lo sforzo creativo fatto da tutti e quattro per tirare fuori un qualcosa di diverso rispetto ai lavori usciti tra il 1980 e il 1993, da “Boy” a “Zooropa”.
In questo disco fu determinante l’apporto dei produttori che operarono al loro fianco, e quindi Flood, Howie B e Steve Osborne, tutta gente abbastanza ferrata in materia di elettronica. Senza il loro apporto, “Pop” non sarebbe mai venuto fuori così com’è. Nel bene o nel male. 

Alessandro

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