Un certo James Taylor…

Ho già scritto tante volte di James Taylor su questo blog. È accaduto per via della mia smisurata – e arcinota – adorazione nei suoi confronti. Per quanto lo ascolti da almeno trent’anni, ancora oggi resto ammaliato dalla bellezza delle sue canzoni e dalla perfezione dei suoi album, anche di quelli più recenti e forse meno potenti, meno ispirati, meno sbalorditivi.
Non solo posso dire di essere cresciuto con i suoi capolavori: i suoi brani immortali, quelli che hanno fatto innamorare milioni di persone di tutto il mondo, mi hanno preso per mano e condotto a passi svelti verso la meraviglia. Gioielli unici come
Something in the Way She Moves, Sweet Baby James, You’ve Got a Friend e Don’t Let Me Be Lonely Tonight si sono infilati sotto la mia pelle e mi hanno portato altrove, aprendo mondi incantevoli dove torno sempre volentieri a rifugiarmi.
Non è un artista che nel corso della sua carriera è riuscito a spiazzare, tantomeno a evolvere con frequenza e ad abbandonare i confini della forma canzone. Da questo punto di vista non ha mai osato. Piuttosto ha cercato di andare al sodo, di girare intorno alla canzone stessa per capire in sostanza come confezionare brani sempre più curati, raffinati, dolci ed emozionanti: di fatto, in più di cinquant’anni, il grande James Taylor ha lavorato in questo modo.
In fin dei conti, stiamo parlando di un songwriter, uno abituato per natura a raccontare il proprio universo e, inevitabilmente, il mondo circostante, quindi le storie vissute direttamente o indirettamente. Stando alla quantità spropositata di dischi venduti, di sicuro tanta gente ha apprezzato la sua ricerca, il suo istinto votato alla necessità di produrre canzoni semplici nella struttura eppure struggenti e toccanti per le note e le parole scelte.
Gli anni Settanta sono stati fondamentali: soprattutto nella prima parte di quel decennio ha sfornato roba incredibile, album con all’interno delle gemme uniche, capaci di cambiare il modo di vedere la musica di tanti artisti desiderosi di farsi largo nella discografia con un’impronta cantautorale. Un periodo più che glorioso, da lui gestito alla grande, tanto da non esaltarsi per il successo crescente e continuare a lavorare a testa bassa, prendendo solo gli aspetti positivi della popolarità.
Negli anni Ottanta ha dovuto in qualche modo rinnovare il proprio sound, facendo scelte non semplici con i produttori artistici scelti di volta in volta. Tutto sommato, di dischi validi è riuscito comunque a pubblicarne. Poi la sua produzione è andata via via rallentandosi: un processo naturale e inevitabile, legato in ogni caso agli innumerevoli tour mondiali che lo hanno portato continuamente a girare il pianeta con la propria band.
Non troppo tempo fa ho comprato “Hourglass”, “October Road” e “Before This World”, i suoi tre ultimi dischi composti da soli brani inediti e usciti rispettivamente nel 1997, nel 2002 e nel 2015. Opere niente male, almeno secondo il sottoscritto. Sempre la solita cura per le melodie delicate e per le sonorità fondamentalmente acustiche, ogni tanto rese più briose da sprazzi di rock, di blues, di country e di soul.
Conosco persone a cui la sua musica e la sua scrittura non dicono nulla. Ci sta. Non biasimo e non critico. Ognuno ha la propria visione delle cose, e questa deve essere assolutamente rispettata.
Io, forse perché malinconico, nostalgico e molto tranquillo a livello caratteriale, non posso fare a meno della sua voce e di tutto quello che la circonda. Sarò triste, sarò noioso: mi frega poco, la poesia è per me puro ossigeno, e la sua discografia ne è stracolma.
Sogno di assistere, prima o poi, a un concerto dell’immenso James. Certo, a settant’anni suonati, quasi ottanta a dirla tutta, le possibilità vanno a ridursi. Mi sarei dovuto muovere in passato, anche perché a Roma è venuto tante volte (qualche anno, prima della pandemia, live addirittura alle Terme di Caracalla). Qualcosa, tuttavia, mi dice che sono ancora in tempo. Voglio crederci.

Alessandro

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