Il tracollo inesorabile della discografia italiana

Da almeno una dozzina di anni, o forse qualcosa di più, mi ritrovo a contemplare con una tristezza infinita la scandalosa e inarrestabile dissoluzione della discografia italiana. Attenzione: non musica, discografia. Perché sono due cose diverse, e premetto subito che, almeno nel nostro Paese, ci siano ancora artisti e gruppi validissimi, anche se non seguiti da un numero esorbitante di fan.
In termini musicali, e non solo, tutto è allo sbando qui da noi. Assisto con sconforto a dinamiche raccapriccianti, per cui presunti cantanti e musicisti ottengono un successo spropositato pur producendo un qualcosa che non si può nemmeno chiamare “musica”, realizzata al computer attraverso i programmi più in voga del momento. In tutto ciò, i dischi non si vendono, e questo è grave e non se ne parla abbastanza.
Qualche copia riescono a venderla quei personaggi patinati e incapaci che oggi sono sulla cresta dell’onda, forse non consci del fatto che per loro la popolarità potrebbe terminare da un momento all’altro. I numeri che si facevano fino alla fine degli anni Novanta, e probabilmente anche nei primi Duemila, sono soltanto un ricordo: un certo Renato Zero, che in quanto a vendite di dischi ha pienamente voce in capitolo, riconosce senza problemi come oggi si vada al primo posto in classifica con nemmeno ventimila copie, mentre un tempo per balzare al vertice ne servivano almeno il quintuplo.
Da quando il digitale ha invaso le nostre vite, supporti come i cd e le musicassette, indubbiamente contraddistinti da dei limiti evidenti, sono finiti ben presto nel dimenticatoio. Fu un processo rapidissimo e allucinante al tempo stesso: di colpo le persone di disinteressarono del supporto fisico di cui, magari, in precedenza non potevano fare a meno, e che indubbiamente gli consentiva di “vivere” meglio la musica, di fare maggiore attenzione a ciò che stava diffondendo lo stereo.
D’un tratto la gente ha iniziato a scaricare anche l’impossibile, virando in maniera decisa verso il file sharing e cominciando a saturare i propri hard disk con una quantità esorbitante di musica poi, per forza di cose, mai ascoltata del tutto. Soltanto quantità e niente qualità. Soltanto musica da sentire in maniera assidua – seppur passiva – senza tuttavia assimilarla, farla propria.
Tutto ciò cominciò a verificarsi tra il 2007 e il 2008, quando contemporaneamente i negozi di dischi iniziarono a svuotarsi e, come ampiamente prevedibile, ad abbassare le saracinesche. Li ricordo benissimo quegli anni. Anni di totale disorientamento, di tentativi disperati di invertire un trend negativissimo attraverso, ad esempio, la divisione in due parti di un disco (otto brani da una parte e otto dall’altra a un costo contenuto).
Ci rimisero gli artisti, specialmente quelli distanti dal pop, collocati senza troppe spiegazioni nel circuito indipendente o alternativo. Loro pagarono davvero caro quel processo devastante. Cosa comportò tutto questo? Tante, tantissime cose. Innanzitutto ci fu una spaccatura, perché alcuni proseguirono sulla loro strada continuando a produrre una musica ricercata anche se sempre meno gettonata, mentre altri provarono a strizzare l’occhio alle radio e ai loro osceni target, con il risultato di perdere credibilità e di non riuscire comunque a “sfondare”.
Insomma, circa quindici anni fa la discografia andò in tilt, avviandosi ad ampie falcate verso un declino senza fine. Anche i pilastri del pop e della musica leggera italica persero la bussola: anche loro videro calare progressivamente il numero delle copie vendute. Per cercare di rimanere a galla, tentarono di seguire le tendenze, modificando in modo radicale il loro sound e il loro linguaggio: chi in precedenza proponeva un pop non esaltante, ma quantomeno dignitoso, poco dopo decise bene di sfornare roba sempre più aberrante, cercando di spiegare alla critica di volersi rinnovare e rimettersi in discussione, provando a scrivere con gli autori del momento (no comment).
Nomi non voglio farne, ma di certo ci sono stati tanti artisti da me stimati che, nel giro di pochi anni, si sono dimenticati di come si scrivessero pezzi profondi e raffinati per inseguire gli ascolti sulle piattaforme digitali e le visualizzazioni sul web. Un fenomeno più diffuso di quanto si possa immaginare, perché qui da noi, a quanto pare, sono davvero pochi i cantanti e i gruppi veri e integri, di quelli per cui la coerenza musicale e artistica conta sul serio.
Sempre una quindicina di anni fa si innescarono altre dinamiche che contribuirono a far saltare gli schemi. Intanto naufragarono i principali canali televisivi musicali, cioè Mtv e All Music, dove i progetti alternativi ed emergenti potevano ottenere visibilità e conquistarsi nuovi estimatori; poi, cosa forse ancora più grave, presero piede in maniera definitiva i talent show. Un punto di non ritorno, qualcosa di totalmente inutile e di marcio nell’idea e nell’impostazione: gente diventata popolare attraverso l’esecuzione di cover banali dove poter mettere in bella vista il cantato e non la scrittura.
I talent hanno prodotto poco o nulla, questo almeno è il mio pensiero. E, credo, sia una cosa del tutto naturale. Per farsi strada nella musica, per andare lontano, bisogna farsi le ossa, fare esperienza, cadere e rialzarsi: solo così si può pensare di costruire una carriera di tutto rispetto. I grandi della musica italiana e internazionale hanno fatto questo tipo di percorso e si sono tolti grandi soddisfazioni. Sono venuti fuori con i fatti, concentrandosi sulla scrittura e sulla composizione, non sul look da sfoggiare o sulle foto ridicole da pubblicare sui propri profili social. I Negrita, gli Afterhours, i Marlene Kuntz e tanti altre formidabili band sono partite dai locali più sudici e improbabili per poi decollare e riempire i club.
Insomma, almeno per me lo scenario è sconcertante. Le radio comandano tutto, nel senso che decretano le tendenze del momento passando continuamente una cerchia ristrettissima di cantanti da quattro soldi. Quelli che acquisiscono visibilità, proponendo un genere che non è un genere, vanno poi a Sanremo. che negli ultimi anni ha visto gareggiare tipi assurdi, elogiati dal pubblico per canzoni indecenti. E dischi, in tutto ciò, non si vendono. E questo comporta il fatto che se ne stiano pubblicando sempre di meno.
L’avvento della pandemia c’entra fino a un certo punto: gli album non si pubblicano perché non c’è richiesta. Spero qualcuno abbia notato che anche gli artisti nostrani più maturi, popolari da decenni, si siano totalmente fermati. Soltanto singoli, ovviamente banali perché concepiti con l’intento di essere presi in considerazione dalle radio. Anche i grandi cantautori e i grandi gruppi legati alla scena indipendente stanno tirando i remi in barca. Per loro diventa difficile pure suonare, fare dei tour veri e propri.
C’è un problema culturale enorme. La maggior parte delle persone non sa comprendere quale sia la musica di qualità, non necessariamente bella, e quale sia in vece quella più mediocre. Si conquistano i fan con roba scandalosa, un elettropop effimero e scialbo. Siamo messi male, malissimo. E non vedo la luce in fondo al tunnel.

Alessandro

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