I Negrita dei primi dischi…

Insieme agli Afterhours, ai Bachi da Pietra, ai Marlene Kuntz, ai Massimo Volume, agli Elettrojoyce e al Teatro degli Orrori, i Negrita sono una tante delle band italiane degli ultimi trent’anni per cui provo un’adorazione particolare. Nel tempo, più o meno dal 2011 in poi, quando venne pubblicato quel “Dannato vivere” da me mai apprezzato e segno evidente di una progressiva carenza di idee, ho perso gradualmente tutta quella passione che mi portava a decidere di andare a vederli dal vivo quando passavano a Roma (credo comunque che in concerto rimangano degli autentici trascinatori, degli animali).
Per quanto da una decina di anni a questa parte abbiano deciso di intraprendere un percorso artistico che continua a deludermi, non posso dimenticare le emozioni provate ascoltando di continuo i loro dischi che vanno dal 1994 al 2001, cioè dal folgorante “Negrita” al profondissimo, in parte cupo, “Radio Zombie”. Quelli, a mio avviso, restano lavori magnifici a livello di rock italiano, con un sound super e una scrittura di livello.
Non credo affatto di essere il primo a riconoscere che, in seguito al passo indietro fatto nel 2003 dal batterista Roberto “Zama” Zamagni, il gruppo aretino abbia perso grinta e concretezza, nonché smalto. D’altronde Pau Bruni e soci hanno ammesso più volte quanto l’addio di un musicista e amico simile, essenziale per tirare su un certo tipo di suono e di groove, sia stato difficile da digerire: in un complesso musicale dedito a produrre brani di matrice elettrica il feeling con il batterista è alla base di tutto, perché durante la fase di composizione spesso una sua intuizione può consentire di scrivere un grande pezzo.
Quando Zama salutò, i Negrita si ritrovarono smarriti. Per un po’ di tempo sfruttarono la batteria elettronica per sviluppare armonie e melodie in studio, qualcosa di atipico per chi nella musica punta tutto sulla spontaneità e sull’istinto. “L’uomo sogna di volare”, il primo disco di brani inediti post-Zama, non è così pessimo come molti fan continuano a insinuare: il problema è ciò che è arrivato dopo, quindi “HELLdorado”, “Dannato vivere”, “9” e “Desert Yatch Club”.
Per fortuna quello che è uscito in precedenza non si cancella. Tuttora vengo travolto dai brividi quando decido di farmi un po’ male e di infilare nello stereo dischi come “XXX” e “Reset”; degli album favolosi, intrisi di magia e sudore, grinta e dolcezza. A cavallo tra fine anni Novanta e inizio Duemila, Pau e compagnia bella erano al top: non facevano altro che sfornare capolavori, pezzi potenti e graffianti, suonati e arrangiati con un gusto particolare.
Ne hanno scritti di brani pregevoli questi ragazzi, e al di là di come sono andate le cose da un certo momento in poi, non finirò mai di ringraziarli per tutto quello che sono riusciti a darmi, a trasmettermi con la loro musica. Una musica, fino al già citato “Radio Zombie”, di spessore, perché contraddistinta da soluzioni musicali gradevolissime, frutto della loro innata attrazione per certi filoni sonori britannici e americani.
Mi risparmio elenchi esagerati di brani dei Negrita per cui vado matto. Non saprei da dove partire e faticherei troppo a mettere un punto, a chiudere la lista. In ogni caso, “Negrita”, “Paradisi per illusi”, “XXX”, “Reset” e “Radio Zombie” andrebbero sentiti almeno una volta per comprendere come fare del rock italiano dignitoso, mai scadente o artefatto. Tornerò a parlare di alcune loro creazioni, senza dubbio.

Alessandro

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