Un calcio in cui non mi riconosco più

In questo blog dedico spazio principalmente alle mie passioni, che di base si riconducono all’ampio, sconfinato settore della cultura, quindi soprattutto ai dischi, ai film e ai libri. Eppure, come tanti sapranno, c’è un qualcosa di molto distante dalla cultura che ancora oggi mi attrae in una maniera difficile da spiegare: il calcio. Nient’altro che una disciplina sportiva, a conti fatti la più seguita e amata in tutto il globo, capace di generare dei fatturati da capogiro.
Probabilmente l’ho già scritto qui: il calcio, che tra l’altro ricoprirà un ruolo importante nel mio romanzo “Brividi d’estate”, in uscita entro la prima metà del 2022, ha segnato la mia infanzia e la mia adolescenza, rapendomi per non lasciarmi più. Tanti gli anni passati a giocare con gli amici nei posti più impensabili, e tanti quelli trascorsi su campi regolamentari a disputare campionati e tornei regionali davanti a un pubblico non sempre nutrito, però vero e attento.
Una volta interrotta la carriera agonistica al termine delle superiori, quando l’università e il lavoro presero letteralmente il sopravvento, cominciò anche a diminuire in maniera graduale l’attenzione per questo sport. Il motivo fu sostanzialmente uno: il cambiamento innaturale del mondo del pallone. Non mi riferisco al gioco di per sé, anch’esso mutato ma comunque sempre godibile, bensì alle dinamiche che lo governano, a certe scelte fatte dalle federazioni e a certe consuetudini a mio avviso poco condivisibili, inaccettabili.
Premesso che continuo sempre a seguire questo sport, informandomi quotidianamente sulla Roma e non solo, molti fattori che si sono verificati negli ultimi dieci, quindici anni hanno finito per suscitare in me un senso di tristezza e di delusione che, salvo miracoli, verranno difficilmente spazzati via un domani. Insomma, il rispetto e la curiosità non mancano, tuttavia lo scenario generale non mi entusiasma, ma anzi mi angoscia e mi fa riflettere (lo dice uno che quest’estate, con la vittoria agli Europei della Nazionale italiana, è praticamente impazzito).
Nessuno mi toglierà dalla testa l’idea che, innanzitutto, le ragioni economiche, l’ossessione per il guadagno delle società calcistiche e delle televisioni, abbiano fatto abbassare in maniera evidente la qualità generale: la logica per cui si deve giocare il più possibile, con l’intento di far innalzare sempre di più i ricavi, ha finito per far smarrire l’intensità del gioco ravvisabile invece in passato. Gran parte delle partite a cui assistiamo generano “spettacolo” giusto per gli errori commessi dai calciatori schierati sul manto erboso, di certo più frequenti di giocate o di intuizioni sensazionali. Perché avviene ciò? Semplice: si gioca troppo, in continuo, perciò ci si allena poco, le partite si preparano male e, soprattutto, tra i giocatori calano in maniera fisiologica lucidità e carisma.
Non voglio aggrapparmi alla visione nostalgica, ma in fin dei conti legittima, per cui gli atleti più acclamati di oggi non siano al livello dei fuoriclasse che li hanno preceduti. I campioni di un tempo mancano e non torneranno più. Qui però il discorso è un altro: si scende in campo con un altro atteggiamento rispetto a qualche decennio fa. Mancano una preparazione tecnica e una preparazione tattica all’altezza, e per di più le star maggiormente acclamate appaiono distratte da troppi fattori esterni. Si vede poca umiltà, e non credo di essere l’unico a ravvisare ciò.
Se penso all’Italia, poi, mi scontro con un contesto abbastanza triste, affossato da novità introdotte in Europa, così come nel resto del mondo. Sempre per la necessità di disputare più partite possibili, il campionato di Serie A continua a racchiudere ben venti squadre. Troppe, davvero troppe. Sono anni che auspico, in modo davvero utopistico, che si ritorni ad avere diciotto squadre con quattro retrocessioni e altrettante promozioni.
Pensare che oggi gareggino invece venti squadre, e che in Serie B ne scendano appena tre, mi rammarica assai: per questa logica si arriva a marzo, quindi a circa due mesi dal termine della stagione, con diversi club già sicuri di non retrocedere. Cosa comporta questo? Che si disputino tante partite poco “sentite”, gare giocate da chi ha pochi obiettivi e perciò non si impegna, quindi l’agonismo latita e lo spettacolo non si crea affatto. In pratica vanno in scena match ufficiali affrontati con l’approccio di chi si dedica a un’amichevole.
Quando in Serie A c’erano soltanto diciotto team, i finali di stagione erano decisamente più coinvolgenti, perché in tanti dovevano fare il possibile per salvarsi e garantirsi quindi la permanenza nel massimo campionato italiano di calcio: ricordo benissimo autentiche battaglie, disputate tra l’altro in contemporanea, perché le ultime quattro giornate si giocavano di pomeriggio, con fischio d’inizio alle quattro e neanche un posticipo. Oggi, invece, i verdetti arrivano di sera, e i campionati si vincono stando seduti sul divano di un albergo.
Potrei continuare a elencare ancora tanti aspetti che davvero non mi convincono, e che da un po’ di tempo a questa parte hanno oggettivamente snaturato una disciplina ideata tanti anni fa. Purtroppo gli impegni più immediati mi inducono a concludere questo intervento sul blog.
Vorrei tuttavia fare un’ultima considerazione, una tra le tante che volevo condividere qui. Sempre ragionando su questo fenomeno per cui il punto fermo è rappresentato dalla necessità di far disputare più partite possibili, c’è una cosa che davvero non comprendo. Nel 1999 si decise di cancellare la Coppa delle Coppe, torneo a cui potevano partecipare soltanto le vincitrici delle coppe nazionali, per ampliare sia la Coppa dei Campioni (mi piace chiamarla ancora così), sia la Coppa Uefa. Questa decisione ha dato vita a una consuetudine sotto gli occhi di tutti: le stesse coppe nazionali, quindi nel nostro caso la Coppa Italia, hanno perso appeal e blasone, divenendo più una scocciatura per le squadre partecipanti.
In passato, la prospettiva di poter gareggiare con le vincitrici degli altri tornei nazionali in una manifestazione a parte dava certamente più stimoli ai club stessi. Trionfando nel 1997 in finale contro il Napoli, nel 1998 il Vicenza di Francesco Guidolin arrivò a sfidare il Chelsea in semifinale di Coppa delle Coppe. Un esempio di autentica favola, qualcosa che poi non si è più potuto verificare.
Mi fa davvero ridere, in tutto ciò, il fatto che quest’anno abbiano introdotto un nuovo torneo, ovvero la Conference League, una sorta di brutta copia dell’Europa League, che già di per sé è parecchio scadente. E allora mi chiedo: ha avuto davvero senso, ventidue anni fa, togliere un torneo prestigioso come la Coppa delle Coppe, aperto per l’appunto soltanto alle vincitrici delle coppe nazionali d’Europa, per vedere oggi andare in scena una manifestazione come la Conference, alla quale partecipano squadre improbabili? Potete immaginare quale sia il mio pensiero a tal proposito.
Mi fermo perché ho scritto davvero troppo.
A presto.

Alessandro

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