Il saluto obbligatorio a Franco

Venire a sapere della scomparsa di Franco Battiato è stato doloroso anche per me. Non mi posso ritenere un suo fan per il semplice fatto di dover ancora finire di scoprire tutta la sua ampia e particolare discografia, eppure l’ho sempre stimato tanto, provando una fascinazione importante per le sue musiche, per i testi dei suoi pezzi e anche per quei suoni così singolari da lui scelti per vestire le singole canzoni.
Un po’ come tutti, ho scoperto la sua arte da piccolino, partendo da grandi classici come Cuccurucucù e Centro di gravità permanente, giusto per citarne un paio. Canzoni, quelle, che negli anni Novanta capitava di sentire praticamente ovunque, accendendo la radio oppure la televisione, ma anche partecipando a qualche festa con gli amici. Poi, man mano, mi sono arrivati altri suoi brani forse meno immediati ma, in ogni caso, non meno famosi (penso a La cura o a Shock in my Town, di cui ricordo la notevole diffusione al momento delle rispettive uscite).
Chi, al pari del sottoscritto, è più legato a una musica italiana abbastanza lineare in termini di arrangiamenti e di linguaggio, fatica e non poco ad assimilare i componimenti di un artista del calibro di Battiato, per sua natura abituato a sperimentare tanto e in continuo, a contaminare con naturalezza. Io, non a caso, mi sono dovuto impegnare per tentare di comprendere il suo stile e, più in generale, il suo mondo musicale.
Accostarsi a lui non è stato come avvicinarsi ai vari Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Paolo Conte, Ivano Fossati, Lucio Dalla e Francesco Guccini, gente che, tuttavia, è stata comunque in grado di confezionare del materiale non proprio immediato, semplice. Però, con uno come Battiato, c’è voluto quantomeno un bell’impegno. E ce ne vorrà, perché, in effetti, dando anche ora un rapido sguardo a quanto da lui pubblicato a partire dall’inizio degli anni Settanta, ci sono ancora delle fasi artistiche per me del tutto sconosciute. E a tal proposito, prometto a me stesso di intensificare l’ascolto di ciò che ancora mi manca.
Non ho mai avuto il piacere di conoscere di persona questo immenso artista, né di assistere a un suo live. Ricordo soltanto che, circa sei anni fa, seguii per “Il Messaggero” un evento organizzato presso la Feltrinelli di via Appia Nuova, a Roma. Si presentava un suo disco, anche se non ricordo esattamente quale (probabilmente un’antologia). L’impressione che mi diede fu quella di un uomo semplice e vero, con grande senso dell’umorismo. E, a proposito di umorismo, una conferma l’ho avuta visionando alcuni simpatici video che hanno iniziato a circolare in rete subito dopo la sua scomparsa. Sono, di fatto, testimonianze di una spontaneità e di una leggerezza per molti inimmaginabili.
In quanto alla sua musica, mi affascinano ancora oggi la raffinatezza e il coraggio di osare, l’abilità nel tentare di accostare elementi classici ad altri invece più d’avanguardia, di rottura, come l’elettronica e il rock. Da questo punto di vista, ha fatto davvero scuola. Almeno in Italia, centinaia di musicisti hanno tentato di fare qualcosa di simile a quanto ideato da lui decenni prima.
Diciamo addio a un grande personaggio, autentico e inimitabile. Spero soltanto che la malattia che se l’è portato via, e che lo colpì anni fa, gli abbia provocato meno sofferenze possibili. Lo spero tanto, come mi auguro che adesso stia riposando in pace.

Alessandro

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