I Radiohead e il fenomenale “The Bends”: tracce di grande rock

Mi rimane sempre molto difficile stabilire quale sia il mio album preferito dei Radiohead, di certo uno dei gruppi a cui resto fortemente legato. Di fatto adoro ogni lavoro firmato da Thom Yorke e soci, a mio avviso formidabili nell’evolversi con stile e coraggio riuscendo, al contempo, a sfornare canzoni di altissimo livello. Impossibile negare come “Ok Computer” rimanga un’opera immensa in termini rock, stesso discorso per gioielli del calibro di “Kid A” e di “Amnesiac”, i primi dischi della band contraddistinti da un uso massiccio dell’elettronica, e per i successivi “Hail to the Thief” (sottovalutato eppure impeccabile), “In Rainbows” (magistrale e ispirato), “The King of Limbs” e “A Moon Shaped Pool”. Credo tuttavia che non si sia mai parlato abbastanza di un lavoro come “The Bends”, il secondo album in studio del quintetto inglese dato alle stampe nel 1995, due anni dopo “Pablo Honey”, il progetto che diede il via al loro sublime cammino.
“The Bends” rimane un disco al quale rimango molto affezionato e che torno spesso a sentire quando sento il bisogno di rispolverare brani immediati, di matrice rock, intrisi di quei suoni ruvidi ma pieni tanto in voga negli anni Novanta. Insomma, non sarà forse l’album dei Radiohead che più amo anche se lo metto allo stesso livello di “Ok Computer”, “Kid A”, “Hail to the Thief” e “In Rainbows”. Cosa mi piace di “The Bends”? Senz’altro la coerenza stilistica e sonora, qualità che permisero al gruppo di sviluppare una scaletta perfetta, con dodici pezzi incisivi, coinvolgenti e prodotti con grande gusto: ancora oggi, riascoltandolo dall’inizio alla fine, non saprei immaginarmi arrangiamenti migliori di quelli scelti all’epoca. Pregevole, a mio avviso, la nutrita presenza di chitarre elettriche che, tuttavia, non coprono mai del tutto le acustiche, almeno quando queste vengono suonate.
Credo sia sorprendente l’intensità costante del disco, che anche quando rallenta i ritmi – si pensi a un evergreen come Fake Plastic Trees o alla conclusiva e ipnotica Street Spirit (Fade Out) – dispensa in ogni caso forti emozioni, regalando momenti di magia pura grazie a canzoni belle, profonde, vere. Da non sottovalutare inoltre il fatto che “The Bends” contenga molti pezzi divenuti, con rapidità, degli autentici cavalli di battaglia: impossibile, del resto, rimanere indifferenti di fronte all’ottima resa delle varie Planet Telex, The Bends, High and Dry, Just e Black Star. Un disco del genere confermò il talento e la crescita progressiva di una formazione strepitosa pronta per scrivere e registrare, di lì a poco, il già citato e oggettivamente inarrivabile “Ok Computer”. Per quanto mi riguarda, “The Bends” non ha troppo da invidiargli.

Alessandro

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