“Sydney”, il sorprendente esordio dietro la macchina da presa di Paul Thomas Anderson

Eccezion fatta per “Phantom Thread”, qui da noi rinominato “Il filo nascosto”, ho avuto il piacere di vedere tutte le pellicole firmate da Paul Thomas Anderson. A suon di opere convincenti, questo regista così eclettico e ambizioso ha dimostrato di avere indubbio talento, riuscendo a confezionare film sontuosi, per certi versi estremi, ma tuttavia sempre in grado di attrarre una bella fetta di pubblico. Credo che in ogni caso Anderson abbia dato il meglio di sé agli esordi. Dico questo perché se ripenso alla sua carriera noto uno stile brillante, convincente, tangibile specialmente in “Sydney” (“Hard Eight”), “Boogie Nights” e “Magnolia”. Ecco, lì c’era da parte sua uno modo di fare cinema piuttosto originale, forse perché, escludendo “Magnolia”, dove il cast era di indubbio spessore, non si trattava di produzioni condizionate in maniera eccessiva da chi andava finanziarle.
Proprio la spensieratezza e la libertà espressiva, unite di certo ad un’ispirazione importante, hanno permesso ad Anderson di emergere in un periodo in cui il cinema americano era in grande fermento. A mio avviso “Sydney” è un’opera strepitosa, generalmente sottovalutata (penso che, al di là di tutto, i suoi estimatori saranno d’accordo con me). Adoro quella fotografia affascinante, il montaggio sapiente, i ritmi perfetti della sceneggiatura che, pur narrando una storia non proprio innovativa, riesce a mantenere alta la concentrazione di chi guarda dall’inizio alla fine. E poi le atmosfere: Anderson riesce a mettere in piedi delle scene in cui lo spettatore viene rapito nonostante l’azione si sviluppi senza eccessivi sussulti.
L’incoscienza unita alla maturità, la tendenza ad osare pur evendo le idee chiare rispetto al prodotto finale da ottenere. Davvero un film notevole “Sydney”. Lo ripeto: non credo di essere l’unico a pensarla così.

Alessandro

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