“Thickfreakness” e i quei Black Keys devastanti

In questi ultimi giorni sono andato a ripescare un po’ di dischi comprati tempo addietro e non più ascoltati di recente. Sonic Youth, Damien Rice, Aerosmith, Pearl Jam, ZZ Top: roba splendida, progetti assai differenti l’uno dall’altro. L’unico “problema” di quando cominci ad avere un’infinità di dischi in casa è che poi non solo non hai modo di sentirli tutti, ma ti dimentichi di possedere degli autentici gioielli che per lunghi periodi ti hanno accompagnato.
Indubbiamente “Thickfreakness” dei Black Keys è un cd ho ascoltato davvero tanto, specialmente negli anni universitari. Non ricordo bene quando l0 acquistai in negozio. Però ricordo di averlo pagato una miseria e di aver goduto tantissimo una volta preso e infilato nello stereo.
I Black Keys li ho conosciuti intorno al 2008, su consiglio di Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio dei Bud Spencer Blues Explosion, che una sera, prima di un concerto al Circolo degli Artisti, mi parlarono a lungo e con entusiasmo della musica di Dan Auerbach e Patrick Carney. Ci misi ben poco ad innamorarmi di quei meravigliosi riff di chitarra, così come del cantato tutt’altro che pulito di Auerbach. Contemplare l’efficacia di album come “The Big Come Up”, “Rubber Factory” e “Magic Potion” fu davvero una bella esperienza, figuriamoci potersi sfondare le orecchie con tutto “Thickfreakness”. In quel disco ci sono undici pezzi divini. Parliamo di un lavoro eccellente, rustico quanto basta per non essere patinato, ma nemmeno scadente. Un disco, è bene sottolinearlo, in grado di guadagnare un numero esagerato di punti solo per quella copertina geniale.
Risentire “Thickfreakness” vuol dire provare tanta nostalgia. Non solo perché tornano in mente quelle serate lontane passate a chiudersi con il duo di Akron, ma perché realizzi che quei Black Keys non esistono più, non sono più immaginabili, non potrebbero più tirare fuori produzioni simili, infarcite di garage e blues. È andata così. Bisogna accettare il cambiamento, no?

Alessandro

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