Il “primo” Clapton

Lo scorso 30 marzo ha compiuto settant’anni, e con estrema puntualità il mondo della musica si è unito per fargli i più sinceri e affettuosi auguri di buon compleanno. Sono particolarmente legato ad un musicista come Eric Clapton. Ho iniziato ad ascoltarlo prestissimo grazie ai dischi degli Yardbirds e dei Cream che avevo in casa, senza dimenticare pure quanto prodotto con John Mayall, Blind Faith e Derek And The Dominos.
La vita di un artista come Clapton è stata davvero incredibile, un continuo oscillare tra momenti di assoluta gloria e altri di forte dolore. Me ne sono reso conto leggendo anni fa la sua bellissima autobiografia, un testo che non solo mi ha permesso di conoscerlo più a fondo, ma mi ha addirittura consentito di ascoltare con un orecchio diverso tutti i suoi lavori in studio, specialmente quelli da solista. E ne ha realizzati parecchi di album Clapton.
Per molto tempo ho ritenuto che le sue migliori opere fossero quelle successive allo straordinario “Unplugged” del 1992, e quindi il disco di cover “From The Cradle”, il moderno e intensissimo “Pilgrim” del ’98 fino ad arrivare a “Reptile”, “Me And Mr. Johnson” e compagnia bella.  Rispetto invece ai dischi rilasciati negli anni Settanta e Ottanta sono stato a lungo scettico, ma da qualche mese a questa parte sto rivalutando un po’ di cose, soprattutto per quel che riguarda il Clapton degli esordi. Ultimamente ascolto con grande piacere i suoi primissimi dischi, e anche se abbastanza acerbi, trovo comunque che possiedano degli spunti niente male.

There's One In Every CrowdIl Clapton post-Cream era un musicista allo sbando nella sua vita privata, spesso ai limiti della lucidità per via di un notevole abuso di droghe e alcool, uno sempre molto insicuro quando si trattava di entrare in studio per incidere e puntualmente fuori di sé quando c’era da salire su un palco.
Tuttavia non credo che quanto sfornato da lui negli anni Settanta sia interamente da cestinare: ad esempio mi piace molto il sound che caratterizza “461 Ocean Boulevard” e il successivo “There’s One In Every Crowd”, un album piuttosto influenzato da elementi sonori centroamericani, gli stessi presenti pure nell’ideale seguito intitolato “No Reason To Cry” (1976). Ecco, se penso a “There’s One In Every Crowd”, ritengo che in quel disco il tentativo di fondere rock, folk, blues e reggae non sia poi stato così fallimentare come osservato da molte persone che conosco. Secondo me in quel disco ci sono dei grandi pezzi, suonati tra l’altro benissimo. E io, in queste calde giornate di primavera, continuo a contemplare con grande piacere certe atmosfere quasi caraibiche a dir poco intriganti. Per quanto non sia un profondo conoscitore del genere.

Alessandro

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